Migrazioni al plurale

L’importanza del linguaggio per ciò che siamo

Anouk van Eerden

Fino a che punto le competenze linguistiche hanno contribuito all’integrazione dei lavoratori ospiti italiani nei Paesi Bassi negli anni ’60 e ’70?

Qual è stata la politica del governo olandese per incoraggiare l’apprendimento della lingua olandese presso i lavoratori italiani ospiti per favorire la loro integrazione?

Il pavone è un maschio o una femmina?
Al giorno d’oggi il governo obbliga ai migranti con permesso di soggiorno di frequentare corsi di olandese e di superare un test di lingua olandese. Negli anni ’60 e ’70 non c’era alcuna iniziativa governativa. Solo i lavoratori ospiti spagnoli che avevano la probabilità di rimanere in modo permanente nei Paesi Bassi, ricevettero lezioni di olandese su scala molto limitata, avviate dal Ministero degli Affari Sociali. Queste lezioni mancavano di struttura linguistica e non avevano nulla a che fare con la pratica quotidiana. Ad esempio, l’esercizio in olandese consisteva nel far rispondere ai lavoratori ospiti spagnoli a domande come: “Is de pauw een mannetje of een vrouwtje?” (Soetens, 2008, p. 14).

L’immigrazione non è una questione per il governo olandese
Questo approccio ha distinto i Paesi Bassi da altri paesi europei: “For instance, in the United Kingdom, immigration and integration were politicised at a much earlier point in history and the model of policymaking was bottom-up rather than top-down” (Bruquetas-Callejo et al., 2011, p. 158). L’immigrazione nei Paesi Bassi è vista come una questione importante per il mercato del lavoro, ma non per la politica del governo. Inoltre, immigrazione e integrazione erano considerate questioni separate.

Non un ritorno di massa in patria.
L’atteggiamento del governo olandese nei confronti degli immigrati e dell’integrazione è cambiato notevolmente nel tempo, come anche notato da Rouvoet, Eijberts e Ghorashi (2017). Negli anni ’70 i lavoratori ospiti venivano aiutati a mantenere le loro tradizioni perché non ci si aspettava che rimanessero nei Paesi Bassi. Negli anni ’80, quando fu chiaro che non ci sarebbe stato un ritorno di massa in patria, nacque l’idea dell’integrazione, ma i migranti non dovevano rinunciare alla loro cultura. Questa situazione cambiò verso la fine del secolo, quando la cultura e la religione degli immigrati cominciarono ad essere viste come la fonte dei problemi della società. Gli immigrati dovevano assimilarsi alla cultura dominante, quella olandese. Il governo si attivò per promuovere la lingua olandese tra gli immigrati per stimolare l’integrazione.

Qual è stato l’impatto delle iniziative dal basso negli anni ’60 e ’70 per incoraggiare l’apprendimento della lingua olandese presso i lavoratori italiani ospiti per favorire la loro integrazione?

Nelly Soetens, insegnante di spagnolo a Rotterdam, rimase molto colpita dalla situazione in cui vivevano i lavoratori ospiti. Erano abbandonati a se stessi e vivevano in condizioni spaventose. Insieme a molti volontari, insegnò l’olandese ai lavoratori ospiti di diverse nazionalità, come spagnoli, turchi, marocchini, italiani, a partire dal 1969 (Soetens, 2008). Lavoravano in stanze grandi e spoglie, con tutti i gruppi insieme, senza l’aiuto da parte del governo olandese. Un assessore all’istruzione di Rotterdam ritenne utile impartire lezioni di olandese ai lavoratori ospiti e a partire dal 1970 le lezioni poterono svolgersi in un’aula scolastica. Per il resto, non ci fu alcuna iniziativa governativa.


Nederlands voor buitenlanders
Soetens era l’unica del gruppo di volontari nella cosiddetta AKPG (Aktiekomitee pro Gastarbeiders) con esperienza di insegnamento. La premessa era che le lezioni dovessero riguardare i problemi e il background dei lavoratori ospiti. La maggior parte aveva un livello d’istruzione limitato. Alla fine di ogni lezione, c’era un glossario con le nuove parole ed esercizi. La struttura dell’olandese veniva costruita con le parole nell’ordine giusto. Nelly chiamò il libro: NEDERLANDS VOOR BUITENLANDERS: l’integrazione attraverso l’apprendimento della lingua del nuovo paese.

Il concetto di integrazione
Non è facile definire il concetto di ‘integrazione’. Negli articoli scientifici viene utilizzato spesso il termine ‘identificazione’. Lo studio di Rouvoet, Eijberts & Ghorashi (2017) riguarda i lavoratori italiani ospiti che vivono nei Paesi Bassi da 20 anni o più. Non contraddicono che sia importante per questo gruppo imparare l’olandese, ma sostengono che la padronanza di una lingua non è automaticamente legata all’integrazione. “In a linear approach to integration, language is the key factor in the integration process because it contributes to societal inclusion by enhancing job opportunities (positioning) and facilitating contact with natives (…). However, other studies have shown the double-edged sword of language, meaning that it can be a source of both inclusion and exclusion” (Rouvoet et al. 2017, p. 106). Per esempio, anche se si parla abbastanza bene l’olandese, l’esperienza dimostra che non è sufficiente agli occhi dei datori di lavoro. 

Identità funzionale e identità emotiva
Dalle interviste emerge che l’integrazione ha due componenti: l’identità funzionale e l’identità emotiva. L’identità funzionale si riferisce al lavoro svolto, e a quel livello c’era integrazione nel senso che le persone attribuivano importanza ai complimenti per il lavoro svolto e erano orgogliose del loro lavoro. L’identità emotiva ha a che fare con l’attaccamento al paese e questa forma di integrazione era meno evidente: “(…) belonging can be quite complex and multilayered. Nationality and culture-wise, most respondents entirely or predominantly identified themselves as Italian, but this did not imply that they did not feel at home in the Netherlands” (Routvoet et al. 2017, p. 109).

Interviste
Con il progetto CEL (Community Engaged Learning-onderwijs) sono state condotte interviste con alcuni migranti italiani che si trovano stabilmente nei Paesi Bassi a partire dagli anni sessanta e settanta. Mi interessava sapere se la loro conoscenza dell’olandese avesse contribuito alla loro integrazione. Gli intervistati sono un italiano proveniente dalla Sicilia di 86 anni che vive a Oldenzaal, e che è arrivato nei Paesi Bassi all’inizio degli anni Sessanta, e una italiana di 65 anni che vive a Utrecht, arrivata nei Paesi Bassi alla fine degli anni Settanta. L’uomo lavorava in una fabbrica tessile, non si trattava di un lavoro pesante, ma di un controllo della qualità del tessuto. La donna era investigatrice presso la polizia. Queste due persone rappresentano due tipi diversi di migranti. L’uomo è un lavoratore ospite degli anni ’60, mentre la donna appartiene al secondo gruppo di migranti italiani con un’istruzione superiore. Sono di seguito denominati ‘uomo’ e ‘donna’. Le citazioni dell’uomo e della donna qui riportate sono tratte dalle trascrizioni delle interviste rispettivamente di Paul Franssen e Marieke Lauwrier.

Autodidatta     
L’uomo ha imparato l’olandese da solo. Non ha mai preso lezioni di olandese, non ce n’erano. Ha imparato l’olandese dalla moglie, che era olandese, e dalla famiglia di lei, ma soprattutto dai colleghi di lavoro: “(…) I colleghi mi dicevano: tavolo, occhiali, penne, tutto. Per imparare dovevo tenere in memoria delle cose stupide. Poi mi sono comprato anche un dizionario, volevo imparare l’olandese perché volevo comunicare con le persone, con le ragazze, con le persone, con mia moglie e così via. Niente scuola, per imparare qualcosa, tutto quello che dicevo lo dovevo tenere in mente, perché una lingua si impara bene nel posto dove sei.”

Corsi di olandese
La donna ha seguito corsi di olandese di propria iniziativa, fin dal suo arrivo nei Paesi Bassi. Per lei l’olandese è una lingua difficile da padroneggiare: “C’era un sistema che si imparava l’olandese con le cuffie. Era il periodo che mettevano su le ‘cassettebandjes’, eravamo in 20, 25, 30 in una classe e c’era un professore o un maestro (non lo so io che cosa era) davanti e lui ascoltava se tu stavi lavorando o meno. Quel corso l’ho fatto due volte, facevo due lezioni alla settimana. Ma mentre facevo quello facevo anche un altro corso, facevo un corso alla scuola media che era anche a Utrecht sulla Mariaplaats, c’era anche là. Quindi facevo due corsi contemporaneamente (…) l’olandese è difficile.”

Parla come un olandese
L’uomo pensa di essere olandese. Diceva che parla e pensa come un olandese: “La nostra vita qui in Olanda, noi ci siamo integrati nella vita olandese, diciamo più o meno quasi tutto in lingua olandese, viviamo qui. (…) Mi sono integrato totalmente nella vita olandese, io adesso penso come un olandese.” Ma c’è anche un altro lato: “Ho imparato molto di più, però quando parlo, gli olandesi che mi ascoltano dicono “Lei non è olandese” ma non sanno da dove vengo, perché sentono il tono della voce, che non sono olandese, sempre quando parlo olandese merken ze dat ik een buitenlander ben. […] Io parlo olandese, ovviamente loro capiscono che sono straniero.”

Le differenze tra italiani e olandesi
La donna sperimenta delle differenze tra italiani e olandesi. Alcune cose l’hanno colpita. In primo luogo, l’uso della lingua: “(…) gli olandesi adoperano meno parole per parlare.” Nota anche che gli olandesi parlano tra loro molto meno degli italiani. Nei primi anni ha dovuto imparare a parlare meno: “Quindi io in quei sei anni lavoravo la mattina, facevo pulizia dopo pranzo, andavo a scuola e la sera lavoravo.” Nel suo lavoro ha inoltre notato che gli olandesi danno importanza a ciò che fanno, anche se è banale, e che questo è il modo di fare carriera: “(…) ho visto sul lavoro, stiamo parlando di lavoro, eh quando loro fanno una cosa così piccola la raccontano così bene non sembra che abbiano fatto chissà che. Capisci? Quindi io mi sono accorta che la gente che poteva parlare andava avanti e faceva carriera e la gente che stava zitta e lavorava non andava in là. C’è una differenza tra l’Italia e qui.”

L’italiano non valorizzato a scuola
Quando il figlio e la figlia della donna sono andati a scuola, le è stato detto di smettere di parlare italiano con loro perché non padroneggiavano bene l’olandese e stavano rimanendo indietro: “E a scuola mi avevano detto che, più che altro il ragazzo, più che la ragazza, rimanevano indietro, mi hanno detto, signora, lei non deve parlare l’italiano perché suo figlio non parla bene l’olandese.” La donna osserva che l’atteggiamento nei confronti del bilinguismo è cambiato: “Adesso abbiamo capito che se tu parli italiano, quando vanno a scuola, fanno fatica i primi paio di metri e poi va bene.” I suoi figli possono parlare con i nonni in Italia, poiché la figlia ha studiato l’italiano e il figlio non ha problemi con la lingua: “E i maschi sono un po’ pigri. Quindi lui non studia, ma capisce quasi tutto.”

Non si dimentica la cultura italiana
Anche l’uomo ha un figlio e una figlia. Sono sposati con persone olandesi e parlano olandese. Sono troppo impegnati per imparare l’italiano. Parlano a malapena l’italiano perché non si può imparare un po’ di italiano: “Una lingua si impara bene nel posto dove sei.”

L’uomo stesso non ha dimenticato la cultura italiana, la bellezza di Roma, il ragú alla bolognese, i tanti cantanti d’opera e i compositori provenienti da tutto il paese. Parla l’italiano con gli altri italiani che vivono ancora a Oldenzaal: “E adesso di questi italiani ne sono rimasti cinque, ci incontriamo due volte la settimana, parliamo la lingua italiana e ci beviamo un caffè e stiamo contenti.”

Arrabbiata in italiano
Quando è emozionata, ad esempio quando è arrabbiata, la donna parla in italiano quando è in Italia, ma in olandese quando è nei Paesi Bassi: “(…) lo faccio perché voglio che mi capiscano.” In seguito, però, dice: “Quando sono arrabbiata se devo imprecare? Sì. In italiano, sempre in italiano o un pochino in inglese succede anche, però soprattutto in italiano. In olandese mai.”

La lingua olandese ha contribuito all’integrazione nei Paesi Bassi?
Le iniziative dal basso degli anni ’60 e ’70 volte a insegnare l’olandese agli immigrati italiani per favorire l’integrazione hanno influenzato i due intervistati in modo diverso. L’uomo è un autodidatta, non ha mai preso lezioni di olandese, ma ha imparato l’olandese dalla moglie che era olandese e dalla sua famiglia e dai colleghi di lavoro. Sottolinea l’importanza della lingua del luogo in cui ci si trova. Vive e lavora nei Paesi Bassi, quindi vuole anche parlare olandese. La donna invece ha seguito corsi di olandese fin dal suo arrivo nei Paesi Bassi, e pur trovandolo difficile, adesso lo parla molto bene e le ha permesso di fare carriera all’interno della Polizia.

Queste interviste dimostrano che la lingua è importante per l’integrazione. Entrambi vogliono parlare la lingua del luogo in cui vivono e del lavoro che svolgono. Ma continuano a sentirsi italiani.

L’arma a doppio taglio del linguaggio
Si può dire che entrambi hanno una forte identità funzionale con il loro lavoro, ma anche una forte identità emotiva con i Paesi Bassi. Entrambi hanno lavorato con successo nei Paesi Bassi, dove continuano a vivere. Entrambi hanno imparato l’olandese, e l’uomo si sente addirittura olandese.

Sembra giustificato dire che qualcuno è integrato attraverso la lingua. Sulla base di questi due casi si potrebbe indicare la lingua come il fattore più importante per l’integrazione, ma questa non è la storia completa. C’è anche un’altra faccia della medaglia. Nei Paesi Bassi, all’uomo viene detto che è uno straniero, nonostante parli olandese. Non assomiglia forse a ciò che Rouvoet et al. hanno definito ‘the double-edged sword of language’, sia l’inclusione che l’esclusione?